Questo articolo nasce fra le file di un Caf, in un pomeriggio buio e tempestoso. Sono solita portare con me libri quando è certo che l’attesa è lunga, ritengo questa pratica molto più propizia dello scrollare senza vero interesse le home dei social.
Tra le solite domande di una neo disoccupata alle prese con mini contratti che impediscono non solo una stabilità futura ma, soprattutto, presente; in preda a mille dubbi su cosa è meglio fare: se cambiare città, nazione o mondo e sulla scelta di quale, decido di accantonare tutto e leggere questo fumetto.
Il titolo Berlino 2.0 m’ispira, come la copertina, le immagini ed i suoi colori.
La trama? Sembra capitare a pennello: una ragazza francese che si trasferisce a Berlino per continuare gli studi e cercare di sopravvivere attraverso un lavoro. Niente di più anomalo, vero?
Ed il titolo Berlino 2.0 non fa che introdurci già in questo panorama. Scorrevole nella sceneggiatura dal linguaggio semplice e delicato nello stile del disegno, l’ho letto d’un fiato, ancora il mio turno al Caf non era arrivato; così ho potuto lasciare posto a nuovi dubbi ed incertezze: «Questa è la situazione sociale ed economica berlinese?». I miei sogni artistoidi dopo la lettura si sono abbassati considerevolmente allo 0,09 %.
Non avremmo più potuto baciarci in piedi accanto al Muro. È pur vero che tanto David a Berlino non c’è più e che dal 1980 ne sono passati di anni, però il gioco di Risiko sembra essere simile, ad esempio la Corea del Nord che prova le sue armi nucleari; la tensione e il fiato corto mondiali, sembrano somigliarsi. Lo so, lo so sto divagando e molto, proprio come divagavano i miei pensieri terminata la lettura.
Il fatto che Berlino possa essere messa come l’Italia proprio non riuscivo a digerirlo, così decisi di andare direttamente alla fonte e chiedere spiegazioni. Ecco, proprio da questa esigenza che nasce l’intervista ad Alberto Madrigal, disegnatore di Berlino 2.0 opera a quattro mani con la sceneggiatrice francese Mathilde Ramatier, classe 1987.

Ciao Alberto, Berlino 2.0 è una delle novità 2017 del fumetto, edito dalla Bao Publishing, uscito in anteprima in Italia al Lucca Comics. Come li hai passati i giorni a Lucca?
Lucca Comics è uno dei miei momenti preferiti di tutto l’anno perché ho l’opportunità di trovare lettori e amici che hanno a che fare con i fumetti e gli autori che ammiro, tutti insieme.
Il bello di pubblicare con Bao è che ci sono sempre degli autori molto bravi e simpatici con cui entri subito in sintonia. Poi vivendo in Germania, non sono più abituato a quella sensazione di girare per strada e incontrare gente che conosco, prenderci un caffè insieme, salutarci e trovare altre persone che conosco, riprenderci un caffè e così via.
Un fumetto creato con la collaborazione della sceneggiatrice Mathilde Ramadier. Come mai l’esigenza di parlare di questo argomento? Qui non si tratta solo di un fumetto che parla di viaggio o del doversi ambientare in posti nuovi con lingua e cultura diversa ma sono l’introduzione per parlare di un tema molto più insidioso: la precarietà lavorativa e quindi sociale dei giovani che si dirigono a Berlino in cerca di “fortuna”.
Questo dovresti chiederglielo a Mathilde Ramadier, che ha scritto la storia. Nel mio caso, ti posso dire che le storie che ho scritto, nascono spesso da un disaggio che mi ritrovo davanti e vorresti metterlo sulla carta per togliertelo di dosso. O almeno capirlo.
Per esempio, nei miei libri precedenti Un lavoro vero e Va tutto bene parlo della precarietà del lavoro da un punto di vista un po’ diverso, quello di chi vuole inseguire una sua passione per farla diventare un lavoro. È una cosa che sento molto dentro e lo vedo anche nelle persone che ho attorno.
Berlino viene considerata, da noi italiani e non solo, la Grande Mela artistica europea. E ritrovarmi questo fumetto fra le mani mi ha turbata e fatto capire quanto difficile e dura sia la situazione economica e sociale di questa città (quando l’ho finito di leggere mi sono detta: «Davvero questa è Berlino? Ma quindi non conviene trasferirsi lì economicamente parlando…»). Nasce da un’esperienza reale e autobiografica tua e della sceneggiatrice? Mi vuoi parlare un po’ della condizione sociale berlinese? Qualcosa che non sia già stato riportato nella vostra graphic novel.
Nasce in parte da un’esperienza autobiografica non solo della sceneggiatrice ma delle persone vicine a lei. La cosa buffa è che io ho avuto un’esperienza completamente opposta a quello che si racconta nel libro. C’è da dire che io vivo una situazione abbastanza particolare: lavoro da solo, di solito per altri Paesi e non per la Germania, quindi non conosco bene la realtà di Berlino da questo punto di vista. L’unica volta che ho lavorato in una startup qui, alcuni anni fa, è stata un’esperienza meravigliosa. Ma ora mi rendo conto di essere stato fortunato.
Berlino è messa peggio rispetto alle città artistiche e culturali italiane quali Bologna, Roma, Firenze..?
Non saprei dirti. Berlino è una città povera e piena di artisti, dove fino a qualche anno fa costava veramente poco viverci. Ci sono molte le gallerie e mostre ma poche persone che campano con la propria arte. Una cosa che qui si trova è un’atmosfera di libertà artistica molto forte e stimolante. Ma spesso, gli artisti che vivono qui, lavorano per altri Paesi o città dove vengono pagati meglio.
Scusami davvero se calco la mano su ciò ma sono rimasta sbalordita da quello che ho letto nel fumetto, io credevo che Berlino fosse sicuramente messa meglio.
Una città è fatta di tante storie.
Quello che hai letto è una faccia di Berlino, come ce ne sono altre molto diverse. Io conosco persone qui che lavorano in delle startup dove sono pagate benissimo.
Interessante il finale senza una chiusura netta. Quando ho finito il libro mi sono chiesta che cos’altro succederà alla protagonista Margot (e ai suoi amici). C’è l’intenzione di creare un continuo?
Sono contento che tu abbia sentito questo, vuol dire che il libro ha una vita a se. Chissà. Per ora non abbiamo mai parlato di creare un continuo.
Il fumetto è l’interazione tra immagine e scrittura. Se fino ad ora ho fatto domande sulla sceneggiatura ora avrei da farti qualche domanda sullo stile e sul disegno. Raccontami qualcosa.
Mentre all’inizio della mia carriera cercavo di disegnare nel modo “giusto”, ora è più un processo di scoperta e sincerità, dove non devo fare bella figura con nessuno. Quando lavori come autore unico è facile perché sei tu a decidere (insieme all’editore). Per questo libro ho chiesto a Mathilde di darmi libertà assoluta e lei non ha avuto nessun problema.
Io leggevo la scena e disegnavo pensando a cosa volevamo trasmettere al lettore, senza dover usare le anatomie giuste o le prospettive perfette. Il lettore spenderà meno di un secondo per ogni immagine e coglierà il senso, non dalla perfezione, ma da quello che le linee e macchie di colore risuonino dentro di lui.
Che tecnica hai utilizzato in Berlino 2.0?
Ho lavorato completamente in digitale, con Adobe Photoshop e una Wacom Cintiq. Ho fatto uno storyboard di tutta la storia in modo da farlo vedere a Mathilde e all’editore. Questo è composto da testi e disegni molto basilari, senza dettagli, giusto per capire se funziona la narrazione.
Dopodiché ho fatto una scena alla volta: bozzetti, disegno finale e poi colori, usando una tecnica di velature del colore per ottenere le tonalità che mi interessavano.
A quali fumettisti ti ispiri o segui con grandiosa ammirazione? Vuoi rivelarci qualche segreto da Maestro? Qual è il tuo percorso artistico? Autodidatta o hai frequentato qualche scuola?
Fumettisti che mi piacciono sono Gipi, Bastien Vivès, Zerocalcare, Manuele Fior, Ruppert & Mulot, Michael Sanlaville…
Per avere segreti da Maestro prima devi essere un Maestro, e io non lo sono. Ma posso dare un consiglio che a me ha sempre aiutato molto: non importa se scrivi o disegni, la cosa più importante quando inizi un lavoro, è arrivare fino alla fine, anche se non sei soddisfatto con il risultato.
Ci sarà sempre tempo per migliorarlo ma è importante non cadere nella trappola di lasciare tutti i progetti a metà una volta passata la fase divertente. Sono andato alla scuola di disegno della biblioteca quando avevo tra i 7 e 12 anni più o meno. Poi ho lasciato perdere ma ho continuato sempre a disegnare sui libri del liceo. Finché a 23 anni ho deciso che volevo provare a fare il fumettista e ho cominciato un percorso autodidatta.
Parli italiano e perfettamente ma nella biografia che ho trovato non vedo esperienze con noi (tranne che per la pubblicazione italiana). Quali e come sono i tuoi rapporti con il nostro Paese?
Le prime esperienze di pubblicazione l’ho fatte con fumetti di supereroi negli Stati Uniti, ma poi ho deciso che volevo fare un altro tipo di libri e ho pubblicato direttamente con l’Italia. Il motivo è semplice, mia moglie è di Roma, e qui a Berlino sono circondato di amici italiani.
Quando ho scritto il mio primo graphic novel l’ho fatto sui temi di cui parlavo con i miei amici, e quindi mi è venuto automaticamente in italiano. Siccome non padroneggiavo la lingua, ho capito che era una buona opportunità per mantenere lo stile di scrittura molto semplice e diretto.
Se lo avessi scritto in spagnolo, avrei fatto dei giri di parole per riuscire a esprimere ogni concetto, e questo non mi piaceva.
Comunque a me l’Italia mi piace tantissimo. Diciamo che ho una seconda vita lì, perché ci vado molto spesso, dove trovo quelle cose che mi mancano nella vita di tutti i giorni.
